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Biografia

Carlo Rivalta nasce a Forlì il 06-09-77. Consegue il diploma in arte dei metalli presso l’Istituto d’Arte di Forlì. Nel 2006 entra nel gruppo MANDRA, con il quale realizza installazioni performative, interattive e video. Si laurea nel 2008 all’Accademia di Belle Arti Bologna. Nel 2009 espone alla fabbrica delle Candele, (Forlì) in occasione del festival di arte contemporanea “INMENTENIENTE”. Nel 2011 Diagonaloftclub (Forlì) con la mostra “Palle Barattoli e Teste Vuote”. Dal 2004 partecipa a diverse mostre collettive: “Giovani scultori studenti d’arte a Bologna” 2004, Castel Franco Emilia (Bo) Palazzo Piella. “Babele e i luoghi della comunicazione” 2006, Pieve di Cento (Bo) Sala della Partecipanza. “L’ Architettura del Disegno” 2006, Sasso Marconi (Bo) Sala mostre Renato Giorni. “Salerno invita” 2008, Salerno meeting internazionale delle arti. “Premio Marina di Ravenna”, Galleria FaroArte 2012 Marina di Ravenna. “Repas Frugal” 2013 Oratorio di San Sebastiano, (Forlì) Chiesa di Santa Marina in Girone (Portico di Romagna FC) Contemporanea Forlì. “De Reum Natura” 2015 Cesenatico (FC). Dal 2010 lavora come proiezionista presso il cinema Saffi di Forlì. Tale lavoro gli permette di concentrarsi sull’attività pittorica in studio. Nel 2018, in occasione del festival di musica elettronica #COMEDIVENTI presso il Diagonaloftclub, realizza una mostra personale e crea la brochure dell’evento. Nel 2019 Mostra personale “SE TUTTO VA ROVINATI SIAMO BENE” presso Wundergrafik Forlì. Nel novembre 2022 presenta la mostra CANI presso il circolo CanDischi Forlì.

– O –

Al centro del quadro c’è una forma d’uomo. Provo a descriverlo : non è né magro né grasso, perché può essere entrambe le cose; indossa abiti di varia foggia e genere, spesso magliette e pantaloncini, ma può portare anche uno smoking se l’occasione lo richiede. Privilegia i colori sgargianti, viola, verde, rosso acceso, ma non disdegna il nero o i calzini rosa. A volte decide di esporre il suo stato d’animo con alcune scritte sul petto; può credere in Dio o avere fame, dipende. Può trovarsi in un museo o imbracciare un fucile con la stessa naturalezza, suonare il sax o il trombone, portare a spasso il cane o farsi ritrarre in posa davanti a un quadro di psicofarmaci. A guardarlo bene, la sola cosa che non vuole cambiare è la faccia, una sorta di cranio ovoidale, bianco, da cui spuntano denti senza bocca, incisivi perlopiù, denti privi di labbra e lingua che sembrano rifiutare ogni tessuto molle. E’ un cranio a due dimensioni, l’assenza del naso non aiuta a creare un profilo; si volta, sembra cercare qualcosa, assiste e osserva ma non ha occhi. Si direbbe che lo sguardo, allora, sia nella postura, nella scritta della maglietta, negli oggetti che lo circondano e lo abitano; sì, non guarda, piuttosto è guardato, non sceglie un luogo, ci si trova. Capita. Capita che a volte si imbatta in un brandello di carne che forse ha squarciato, un reflusso esofageo di Bacon, o che appaia fiero dietro a una testa di maiale da cui sbuca il coniglio di Lynch, o di Cunningham, o di Barney, o semplicemente un coniglio. Capita anche che a volte si trovi a fronteggiare un’escrescenza che ne voglia ridefinire i contorni, che si tratti di un fungo o di un rospo poco importa. Ha denti ma anche mani, questo cranio, e può capitargli di sbucciare e deglutire farfalle o di prendere paletta e secchiello per un’infelice regressione tra amici. Ora sì, si imporrebbe di capire chi è questo cranio, o di chi è, o se ha un nome o un titolo, o se è l’alter-ego dell’autore in questo caso pittore, o dargli un’emozione, decidere se è felice o triste, insomma de-finire qualcosa di questo cranio, privarlo di questa insopportabile sospensione, insomma dove viene e dove va, se viene e se va. O. O no. Che sia proprio questa la sua natura, voglio dire la sua identità, questa O con mani denti persa in un tempo che non è un tempo e in un luogo che non è un luogo? Certo, sarebbe davvero un peccato scomodare ancora Freud, e il perturbante, e quell’estraneità che pure ci è familiare. O scoprire, nella mente, che potrebbe essere un soggetto di D.F. Wallace, o meglio, di Sanders, o di una certa corrente post-moderna che dalla letteratura passa a…eccetera eccetera. O. Ecco, c’e’ questa O che è quasi un cranio e che somiglia anche a uno zero. Che non è niente, che si annulla, che divora, che forse spara, che è cancro, che è carne, che è un oggetto tra gli oggetti che pensano, in silenzio. No, forse non è una forma d’uomo, devo essermi sbagliato. Forse è un’altra forma. O no. Forse non ha niente a che fare con questo uOmO. Forse, chissà, un nuovo alfabeto partirà da qui.
F.B.

La Grande Estinzione

L’unico modo che conosco per iniziare è quello di stilare una lista:

C’è la mamma e la zia, la nonna che puzza di morte, il figlio dei vicini che lancia i petardi ai gatti.
C’è il prete che crede in Dio e quello che non ci ha mai creduto.
Il senzatetto che fruga dentro i bidoni della spazzatura tutte le mattine e sembra un bancarellaio che sistema la sua merce.
C’è il punk di provincia adolescente, ammirato e temuto dai suoi coetanei, ma quando torna a casa con la febbre sua mamma gli fa il brodo caldo e gli passa una mano sulla fronte e gli dice “domani a scuola ci vai lo stesso” e lui la guarda e sa che non è vero.
Quello che voleva essere una rockstar ma non sa cantare, il professore che voleva scrivere ma sa solo leggere le cose degli altri con una punta di invidia.
C’è tuo padre e tutto quello che non sai, come lo considerano i suoi amici del bar, quali sono le sue gioie o che aspetto ha quando è felice.
C’è il cacciatore , consapevole che il suo cane morirà prima di lui e quando succederà non vorrà nessuno tra i piedi nemmeno sua moglie.
E poi c’è il diavolo, scegli tu quale, e lui te lo ricordi bene perché una volta quando stavi nel tuo letto con i timpani ancora pulsanti dopo la discoteca, ti ha sussurrato all’orecchio la più terribile delle sentenze, “non ti preoccupare” ti ha detto” la tua vita sarà normale”.
E l’unico modo per riconoscere gli altri, per renderli credibili, è donando a tutti un volto alieno.
Ho visto la genesi di quel volto ma non la sua evoluzione perché evoluzione non c’è stata, era già perfetta così, nata adulta. Ad evolversi è stato tutto il resto.
Così un macellaio e un chirurgo possono condividere lo stesso spazio dato che sono uguali, tutti e due vedono il corpo come una macchina, uno le sfascia l’altro le riassembla ma macchine rimangono. Il macellaio tiene una testa in mano e il chirurgo potrebbe operare i tranci di bue.
Non è nonsense e nemmeno un cortocircuito moralista, è pura realtà.
Tutto si ribalta sensatamente e così anche la pittura per come la possiamo immaginare.
I soggetti principali sono realizzati con tonalità piatte, c’è un palese disinteresse nel renderli pittorici nel senso piacevole del termine. La vera pittura, quella materica espressionista, quella più brutale e che arriva dal passato, funge da strumento per costruire gli elementi di scena: cassonetti, pezzi di carne, escrescenze fungiformi, mobili da salotto, cani, bottigliette di medicinali.
Il realismo è presente ovunque, basta osservare bene, basta guardare la testa del cerbero, quella più alta, di come il suo occhio tremebondo aspetti un gesto del padrone.
La qualità di queste opere è evocativa, quasi antropologica, sicuramente sociologica.
Guardandoli attentamente puoi insediare i soggetti davanti a casa tua, farli diventare i tuoi vicini e poi espanderli nelle case a fianco, coprire tutto il quartiere, il bar all’angolo, l’edicola della zona
la vecchia che fa la passeggiata prima di cena, i postini, il parchetto rionale e tutti i bambini che lo frequentano.
Puoi vedere tutta una città e puoi vedere te stesso, com’eri e come sei e poi basta; come sarai no, perché conoscere il futuro è una follia fottutamente pretenziosa.
Queste opere possiedono un senso di presa per i fondelli verso lo spettatore, ho sempre il dubbio che sia uno scherzo ma questo stimola un bisogno di significato, non me ne accorgo è automatico.
Vedo una figura magra e pallida con un orecchio ipertrofico a fianco di un’altra figura dagli abiti ben definiti che al posto della testa ha un grosso uccello nero, e mi domando se quell’orecchio ha un significato profondo se è il fulcro dell’opera, se mi suggerisce il tema, l’intenzione, ma l’intenzione potrebbe non esserci e quell’orecchio potrebbe essere li solo perché l’artista aveva voglia di dipingerlo e così per tutto il resto, titolo compreso. “Lui ha un grande uccello” è da leggere in senso maliziosamente figurato oppure letteralmente?
Tendo a credere alla seconda opzione, ma naturalmente è il mio punto di vista.
Queste figure grottesche e tragicomiche non hanno malizia, sono nate per fare quello che fanno, ballano veramente, vomitano e sbavano con sincerità, credono nelle forme di comunicazione e nel look. Prendono medicine senza vergogna perché è giusto così, anzi sono quelle medicine che tengono incollato il loro fenotipo a quell’iconica testa aliena.
Il giusto compromesso tra l’artista e i personaggi che ha creato. Deve avergli pur dato qualcosa per tenerli in questa condizione? Devono fare cose, compiere gesti, posare all’infinito ballare per sempre per dimenticare chi sono.
Possono anche comprare su ebay buchi neri, è stato venduto di tutto su ebay: un barattolo con un fantasma, un amico immaginari (giuro non scherzo), addirittura il senso della vita, vinto all’asta per tre dollari.
Ma la differenza è che questo buco nero è reale e prima o poi inghiottirà tutto, oppure no e sarà ammansito come il “cane più grande del mondo”. Vedremo per quanto tempo.
C’è qualcosa di esoterico nelle figure con la testa a prisma, qualcosa che noi non sappiamo ma loro sì.
Le teste antropomorfe hanno subìto una trasformazione, ci dicono che esiste una landa antica e sconosciuta tra quello che crediamo di essere e la realtà, tra i gesti che compiamo e il perché.

Alla fine credo che tutta la poetica di Carlo Rivalta, la sua personale visione, si racchiude in una frase scritta su una maglietta.

In un dipinto “Natura in Coma” c’è un personaggio che tiene il pollice alzato a dare il like e sulla sua maglietta bianca a maniche lunghe c’è scritto:
“smetti di fumare vivi per i tuoi cari”

Matteo Sbaragli